Wednesday, April 29, 2009

Isis "Oceanic"


Quando ancora la creatura denominata post-hardcore era in fase embrionale, gli Isis, creati dal boss della Hydra Head Records, Aaron Turner, stavano meditando su come perfezionare quell'amalgama dissonante che era stato il loro lavoro precedente "Celestial". Ciò che è venuto fuori, a due anni di distanza, ha tracciato, volente o nolente, nuovi punti cardinali che in molti si sono sforzati di scimmiottare. A dirla tutta, "Oceanic" non è per niente di facile ascolto e chi crede di poter capire i suoi passaggi complessi in una volta sola è un folle. Le composizioni sono tutte di una durata elevata, fatta eccezione per dei necessari istanti di stasi posti a metà dei brani, per dar tempo ad ogni singolo strumento di emergere, senza però essere troppo invadente e rischiare di rubare campo all'armonia. La batteria resta sempre al suo posto, zittita da colpi scanditi in maniera quasi otturata da un suono tribale. Addirittura il canto espresso dalla soave Maria Christopher, in "Weight", fa soltanto da sfondo, andando a immergersi nelle articolazioni chitarristiche. Potrò sembrare severo, ma non darò a "Oceanic" un voto superiore alla sufficienza e ciò perché la storia mi insegna che questo è un futile antipasto di quello che gli Isis ci proporranno nell'immediato futuro. VOTO: 6. http://www.isistheband.com/

Tuesday, April 14, 2009

Post-Core: Lights And Shadows

Con il prefisso "post" s'intende ciò che è venuto dopo, ovvero come un determinato stile o genere di musica sia stato contaminato. Agli inizi degli anni '80, si sentiva parlare frequentemente del "post-punk", cioè di quella schiera di bands venute alla ribalta dopo l'esplosione mondiale dei Sex Pistols e dello status di punk: i Joy Division, i The Cure e i Killing Joke ne sono i basilari rappresentanti. Il "post-core" dei giorni nostri, invece, racchiude nella sua espressione le manipolazioni e le sperimentazioni avvenute non soltanto sull'hardcore, ma soprattutto sul metal. E' un sottogenere prettamente strumentale, creato attorno a scenari apocalittici, privi di una qualsiasi fonte di luce, dove la voce gutturale si destreggia all'interno di fraseggi all'apparenza quieti e rilassati. Proviamo ad inquadrare i principali esponenti di questa scena, partendo dagli americani Neurosis. Guidati dall'ugola maligna di Scott Kelly, questo quintetto di Oakland fu tra i primi ad aver avuto il coraggio di osare, rendendo il metal più cupo, aumentando i tempi cadenzati, spingendoli ai confini col doom. Per rendere un'idea della loro arte consiglio l'album del 2004 "The Eye Of Every Storm", dove si ha davvero la sensazione di restare intrappolati nel bel mezzo di una tempesta vorticosa.
La vita discografica degli Isis, figli della Ipecac Records di Mike Patton, si può dividere in due momenti: nel primo, contrassegnato dai dischi "Celestial" e "Oceanic", il gruppo riprende fedelmente il modello "Neurosis", senza apportare nessuna variazione di rilievo. Con gli ultimi due lavori "Panopticon" (considerato da critica e fans il loro massimo punto di creatività) e "In The Absence Of Truth", si intravedono i primi raggi di sole, merito di una voce che si evolve adottando la formula clean/growl, mentre tutt'attorno pare di assistere ad una jam urticante, fatta di cambi di tempo inaspettati.
A questo punto la piccola rivoluzione innescata da Neurosis e Isis cominciò ad invadere anche l'Europa e in particolar modo la Svezia: proprio qui nacquero Cult Of Luna e Burst, due nuove realtà del post-core. La definizione "sludge metal" stava troppo stretta ai Cult Of Luna, perchè questo nuovo termine andava ancora una volta ad intaccare il doom, spostando così il baricentro verso gruppi come Eyehategod e Down, totalmente estranei alla scena presa in esame. I capitoli della loro discografia si differenziano tutti in piccoli particolari: "Salvation" è in assoluto il picco della loro emotività con le sue trame sofferte, "Somewhere Along The Highway" è il più accessibile del lotto, capace di farsi apprezzare anche dai non estimatori, infine "Eternal Kingdom" è un ritorno agli albori, con un maggior spazio riservato agli strumenti, regalando così singolari episodi chitarristici e ritmiche meno serrate, senza venir meno alla furia che li ha resi noti.
I Burst sono quelli più intrisi di modernità, dove gioca un ruolo fondamentale la voce pulita del chitarrista Robert Reinholdz, ideale contraltare a quella brutale di Linus Jagerskog. Una menzione va senza dubbio ad "Origo" del 2005, ricco di chiaroscuri e atmosfere ombrose, magnificamente sorrette dalle melodie vocali
Finito questo breve excursus in terra svedese, torniamo nelle care e vecchie lande a stelle e striscie con i Mastodon da Atlanta. Dapprima fautori di cavalcate trash tecnicamente avanzate, con "Blood Mountain" del 2006, cominciò a circolare la terminologia "post-metal", una terminologia assolutamente infondata, come abbiamo potuto apprendere nel primo segmento di questo articolo. La differenza stava nella facilità che avevano di pescare a piene mani nel sound che contraddistinse sia gli anni '70 che la progressive. Nel 2009, con "Crack The Skye", i Mastodon effettuarono un'ulteriore maturazione, facendosi travolgere dallo stoner e lasciando alla batteria di Brann Dailor l'ambito ruolo di protagonista suo malgrado: i dieci minuti dell'epopea "The Czar" ne sono, appunto, la conferma.